Ho riflettuto molto prima di esprimere un’opinione su quella che, più che un’evoluzione, sembra una vera e propria inversione di rotta.
Un’inversione di rotta a tratti lenta, che interessa soprattutto i due principali social network mondiali (Facebook e Instagram) e che, pur cercando di fare meno rumore possibile, si sta comunque facendo notare.
C’erano una volta i social
Nati con evidenti motivazioni voyeuristiche (Facebook in primis) e con caratteristiche smaccatamente orientate allo svago, al tempo libero e al libero osservare la vita degli altri, hanno aggredito il mercato a suon di like e di follower.
Si sono, nel tempo, evoluti. I like in Facebook a un certo punto non sono più stati sufficienti e sono arrivate anche le altre possibili reazioni ai post. Come a normare e sintetizzare in un click l’infinità varietà delle umane emozioni.
Man mano che sono cresciuti, e vi sono entrate le aziende (che giustamente vanno dove stanno le conversazioni tra persone), questi social liberi e democratici hanno iniziato a stringere le maglie della reach organica dei contenuti, allo scopo di diventare veri e propri media a pagamento.
Hanno così progressivamente preso il posto dei media tradizionali, in primo luogo quotidiani e riviste (ma anche radio e tv).
Hanno iniziato a offrire strumenti sempre più evoluti per targettizzare e raggiungere i pubblici, e per amministrare campagne sempre più compresse e pervasive. Hanno attivato vetrine e sezioni shopping per le aziende che vogliono sfruttare le possibilità di un e-commerce. Hanno avviato test per diventare loro stessi social commerce.
[Ripenso oggi alle affermazioni di chi fino a un anno e mezzo fa circa sosteneva prepotentemente che i social, e internet in generale, non facessero vendere vino, ma servissero solo per coltivare la reputazione del brand. Ecco un altro mito in disfacimento, un’altra rivoluzione innescata da un “semplice” carrello]
Su Instagram la conta dei like a un post è ormai scomparsa. Una bella botta per quel concetto di vanity metrics che tanto ha fatto la fortuna dei social network. Ma quando la riprova sociale diventa ansia forse è meglio tirare i remi in barca (così almeno dicono loro). E comunque i tempi cambiano. Qui una mia personale interpretazione dei fatti.
Da qualche giorno la nuova notizia. Anche Facebook ha avviato un esperimento, per ora circoscritto all’Australia, volto a eliminare il conteggio dei like dai post.
Questo, se non fosse chiaro, è un cambio di paradigma radicale. Il pollice in su è stato per anni il simbolo di Facebook, e tra poco potrebbe non essere più così rilevante.
La logica dei test
Piattaforme come Facebook e Instagram, ma anche Twitter, LinkedIn o altri più recenti come Snapchat o TikTok, effettuano costantemente e continuativamente test allo scopo di migliorare le proprie performance e la propria appetibilità. Spesso attivano vere e proprie strategie di growth hacking.
Alcuni test rimangono nascosti, altri sono solo interni, altri iniziano e si concludono senza che nessuno se ne accorga, altri ancora diventano notizia perché, come nel nostro caso, coinvolgono una parte della popolazione mondiale che “fa da cavia”.
L’intento resta quello di osservare le reazioni di questa parte di pubblico per capire se la cosa si può rilasciare su larga scala.
Un test, quando si allarga a più di un paese, è quasi sempre un indizio che si trasforma in prova. Prova del fatto che la modifica è apprezzata e che, quasi certamente, diventerà norma, regola. Vedremo quindi se oltre all’Australia verrà coinvolto un altro paese.
Il vino dal logo al brand
In tutto questo marasma algoritmico, funzionale ed esperienziale, il mondo del vino sta vivendo una propria evoluzione, che non so se definire in controtendenza rispetto alle opportunità offerte ieri e oggi dai canali social. Mi spiego meglio.
Qualche anno fa la comunicazione delle aziende del vino su Facebook e su Instagram era molto più limitata, sia in termini di quantità, sia di frequenza. Le poche cantine che comunicavano con costanza arrivavano da un’abitudine comunicazione “tradizionale”, da brochure, se così la possiamo definire. Patinata, impostata, spesso post prodotta, marchiata con il logo aziendale.
A livello emotivo certamente più fredda, distaccata, rispetto a quella generalizzata di oggi. Da marchio che comunica unidirezionalmente con il proprio target. Tutto molto manuale del marketing vecchia scuola.
Erano tempi in cui la reach organica era molto più alta di oggi, tempi in cui era più facile emergere e ottenere visibilità “a basso costo” (girava già la leggenda dei “social gratis”).
Erano anche dunque i tempi per rischiare una comunicazione più immediata, più spontanea, meno edulcorata, meno da spot pubblicitario. Ma non eravamo pronti, non eravamo abituati. Né noi consumatori, né le aziende.
Negli ultimi anni, complici anche gli wine influencer, la comunicazione di alcune aziende del vino si è spostata in questa direzione più paritaria con il proprio pubblico.
Molte altre cantine si sono accodate a questa tendenza, producendo immagini e post con un taglio immediato, live, in real time, grazie anche all’avvento delle stories e delle dirette. Come se a un certo punto anche le aziende vinicole più timide e reticenti avessero detto: “ah, dunque si può comunicare anche con una semplice immagine scattata dal mio smartphone?”.
Il vino oggi deve essere comunicato in maniera semplice, fresca, immediata, senza sovrastrutture elitarie a fare da barriera. Così sentiamo ripetere negli ultimi anni, e in parte sono d’accordo.
Ma è anche vero che ognuno tira l’acqua al proprio mulino. E se ci sono esperti del settore che hanno deciso di rimodulare tono e contenuti della propria comunicazione per adeguarsi a un pubblico meno preparato ma altrettanto curioso, è anche vero che altri, all’inizio di un percorso di conoscenza enologica, non potevano fare a meno di buttarla sulla freschezza e sulla semplicità, a scapito di un approfondimento che non sarebbero stati in grado di fornire.
Meno pubblicità e più storytelling in pratica, più vita vera in vigna, in cantina e agli eventi, meno lifestyle da copertina o loghi impressi su ogni scatto.
Meno logo e più brand inteso come rappresentante dei valori aziendali.
Tutto questo è avvenuto e sta avvenendo però in un periodo in cui i social si sono avvicinati come mai in precedenza ai canali pubblicitari tradizionali, trasformandosi in media a pagamento.
Come dire, i social ci hanno invitati nel tempo a comunicare in maniera più intima e personale con il nostro pubblico, a ragionare in termini di narrazione, ma stanno ormai da tempo offrendo una piazza che ha sempre meno speranze di visibilità organica. Una piazza che ha bisogno di un budget.
Le nostre belle storie ora non le ascolta più nessuno. Non senza pagare.
Cosa fare dunque?
Non lo so. Onestamente. Dipende da troppi fattori.
Certo sappiamo che le piattaforme hanno cicli di vita simili, e ora osserviamo tutti i più recenti Snapchat o TikTok nella speranza di riconoscervi il futuro eldorado della comunicazione organica, il luogo dove un sano storytelling possa essere ascoltato senza doverci necessariamente caricare del denaro.
In un periodo in cui i consumatori si fidano sempre di più dei consigli spontanei di loro simili rispetto agli storici e posizionati opinion leader, ecco che è sempre più difficile raggiungere il consumatore perché c’è eccessiva densità di informazione e necessità di sponsorizzazione.
Staremo a vedere, anche se personalmente i social senza le proprie vanity metrics mi sembrano troppo somiglianti ai quotidiani online.
Questo post contiene alcune informazioni che spero possano esserti d’aiuto concreto. Se vorrai condividerlo ne sarò felice.
Nel caso in cui necessitassi di ulteriori approfondimenti o desiderassi contattarmi per una consulenza, puoi farlo tramite la chat Messenger o scrivendo a andreamarc79@gmail.com
2 Responses
La riflessione è interessante, come sempre. A mio avviso, i wine influencer e la comunicazione del vino in genere, ha voluto scimmiottare troppo il mondo del fashion, dove l’immagine è tutto e la storia più superficiale. Belle foto di tramonti con flute di spumante in primo piano, di paesaggi con calici di vini rossi strutturati, e poco altro. La comunicazione del vino, ancora secondo me, passerà molto per le piattaforme di acquisto online dove i wine lovers si scambiano informazioni non dottorali sui riconoscimenti olfattivi e sugli abbinamenti. Oppure, ci si lascia condurre alla prossima etichetta dalla fiducia che accordiamo alla piattaforma online di e-commerce, come Bright Cellars o Empathy Wines di Gary V. Quello che accade su Netflix, insomma, o su Spotify.
Un’altra ipotesi cyber-paranoica è che ormai alle piattaforme social non serva più il conteggio dei like per capire le nostre preferenze, la IA ormai ha metodi migliori, più sofisticati e, forse, più pericolosi, per conoscere i propri polli.
Grazie per il bel commento Rolando. Proponi due utili e interessanti riflessioni. Sulla seconda aggiungo che il fatto che le piattaforme nascondano i like agli utenti non significa che non tengano o non utilizzino ancora queste informazioni per sé. Poi vero che la profilazione utente diventa sempre più profonda e precisa.